CAMPI BISENZIO – Il racconto degli studenti campigiani prosegue con la seconda parte del “Viaggio della memoria”.
Auschwitz, quel cancello, quelle baracche, quelle stanze della morte. Le parole non servono perché non bastano. Però raccontare ciò che si è provato visitando quei luoghi aiuta ciascuno a riconoscersi testimoni di un tempo senza tempo che non deve essere obliato, che non deve ripetersi mai più.
“La terza giornata è iniziata alle 6.15 quando, dopo aver fatto colazione, siamo saliti sul pullman per andare al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Appena abbiamo oltrepassato la famosa porta principale con su scritto “arbeit macht frei”, ovvero “il lavoro rende liberi”, in quel momento abbiamo notato un cambiamento nell’atmosfera intorno a noi, si percepiva come una sensazione di silenzio e dolore, dolore portato dalle persone che hanno perso la loro vita in quel campo. Abbiamo visitato alloggi e piccole camere nelle quali risiedevano tutti i reperti riguardanti l’epoca, che comprendevano capelli, occhiali, scarpe e molti altri oggetti che ci hanno colpito subito a prima vista per la quantità” (Agnoletti).
“Appena siamo entrati abbiamo percepito una fitta allo stomaco, a causa del nostro timore riguardo a ciò che avremmo dovuto vedere. All’interno del campo l’aria che si respirava era pesante. Era come se si stesse avvertendo la presenza dei deportati. In quel momento ormai i sentimenti prevalenti dentro di noi erano la tristezza e il dolore”.
“Successivamente il nostro percorso si è spostato al campo di concentramento di Birkenau. Purtroppo, molti edifici e camere a gas sono stati distrutti e a nostro parere questa è una cosa negativa perché non avendo più davanti e quindi non rivedendo gli orrori commessi, piano piano possiamo dimenticarli. Uno dei momenti più toccanti della giornata è stata la commemorazione delle vittime dei campi di sterminio fatta a Birkenau. Abbiamo sfilato per la lunga strada che percorre il campo fino ai monumenti celebri indossando mantelli con la scritta “pace” e portando un piccolo garofano rosso. La cerimonia era accompagnata dalla canzone “Imagine”. Le sensazioni di questa esperienza non sono comprensibili dall’esterno attraverso la lettura, ma in ognuno di noi ogni momento, attimo per attimo, è come se ci fosse stato un grande puzzle nel nostro cuore, come se esso si completasse passo dopo passo, emozione dopo emozione. Importante non è stato soltanto ciò che abbiamo visto con gli occhi, ma soprattutto ciò che abbiamo provato con il cuore e osservato con l’anima. Ci siamo presi la libertà di riflettere, pensando a tutto il percorso intrapreso e al significato generale che può essere attribuito ad Auschwitz. Era uno dei più importanti campi di sterminio che riuscì a raggiungere il suo apice di attività durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale con la creazione delle camere a gas. Chiunque entrasse, perdeva tutto, diritti, nome e libertà, diventando numeri tutti diversi tra loro ma allo stesso tempo tutti uguali accompagnati dal dolore, non solo fisico ma anche psicologico. Possiamo notare la malvagità dell’uomo e come essa può duplicarsi in ogni mente. Quello che hanno subito queste povere persone è indescrivibile e privo di senso. Si dice che tutto abbia un senso, ma noi non ne troviamo nessuno. Inoltre ci siamo fermati a riflettere sul tempo, il tempo che ha portato il terrore a quell’epoca e lo stesso tempo che adesso sta portando con sé tutti i resti e le cattiverie compiute dall’essere umano. Infine anche le cose più negative del passato possono avere un risvolto positivo nel presente o nel futuro. Tutto questo ci insegna a riconoscere i veri valori e soprattutto cosa è davvero importante nella vita”.
Il pellegrinaggio della memoria non si è concluso con la visita ai campi.
“Dopo aver vissuto questa toccante esperienza, ci siamo riuniti per svolgere un’attività all’interno dell’hotel in cui ognuno ha scritto una parola che rappresentasse il significato che ha avuto per lui la giornata ai campi. Dalle attività sono emerse tre parole che hanno colpito la maggior parte di noi. La prima è trecce perché in una stanza erano esposte tonnellate di capelli tra cui trecce di bambine e donne che ci hanno fatto immaginare il momento del taglio dei capelli e il dolore di queste persone. La seconda è scarpe perché, tra le migliaia presenti, siamo rimasti impressionati dalle scarpette appartenenti a bambini molto piccoli. Come dice la poesia di Joyce Lussu: “I piedini dei bambini morti non crescono, i piedini dei bambini morti non consumano le suole”. L’ultima è sorriso perché ci ha stupito il fatto che fra le foto dei prigionieri alcuni avevano un’espressione di serenità non essendo a conoscenza del destino che le attendeva”.