Marco Banchelli: “il mio Everest” trenta anni dopo

SESTO FIORENTINO – Trenta anni fa esatti Marco Banchelli ciclo ambasciatore di Pace raggiungeva Himalaya del Kala Pattar (oltre il Campo Base Everest). Un ricordo che oggi a distanza di molti anni, Banchelli vuole condividere con chi lo ha sempre seguito nelle sue imprese basate sulla connessione tra i popoli e la ricerca di un […]

SESTO FIORENTINO – Trenta anni fa esatti Marco Banchelli ciclo ambasciatore di Pace raggiungeva Himalaya del Kala Pattar (oltre il Campo Base Everest). Un ricordo che oggi a distanza di molti anni, Banchelli vuole condividere con chi lo ha sempre seguito nelle sue imprese basate sulla connessione tra i popoli e la ricerca di un linguaggio culturale e sociale legato a realtà diverse. Ecco il suo ricordo:

Era proprio il 20 aprile 1992 quando, raggiungendo il fantastico “balcone” dell’Himalaya del Kala Pattar (oltre il Campo Base Everest), affacciato sulla più alta montagna del mondo pensavo quasi di aver concluso un percorso. E invece anche quella non fu che una “tappa” di avvicinamento…

L’Everest, da quando le popolazioni di quelle terre lo conoscono, ha da sempre avuto due altri nomi: Chomolungma per i tibetani e Sagaramātha per i nepalesi. Di questi io preferisco le traduzioni in “Madre dell’Universo” per il primo nome e ‘Padre del cielo’ per il secondo. Come la massima divinità della terra, che insieme racchiude le due figure di madre e padre, fosse anche rivolta da quelle semplici genti del posto, verso l’Assoluto che va oltre, verso lo spazio infinito del cielo. E il bello appunto è che da allora (e forse anche da prima) ho la sensazione che per me quel viaggio e l’ “impresa” umana più autentica, continui. Ed ogni giorno confermi insieme alla piccolezza delle altre, l’unica direzione su cui puntare. 

Nella maestosità del creato, solo con la mia bicicletta, iniziavo a comprendere che non sarei mai più stato da solo. E che sentirsi “fratelli” dell’altro poteva essere molto più semplice di ogni altra avventura con o senza bicicletta, come con ogni altro mezzo. Oltremodo felice mi rende adesso il pensiero che quella mia ‘prima bicicletta’ al cospetto dell’Everest sia stata in qualche modo di ispirazione ad altri, dallo sfortunato svedese Goran Kropp fino all’italiano De Felice. Anche se ancora più grande è la soddisfazione di trovare ancora per strada gente che mi riconosce e mi saluta ringraziandomi per aver fatto loro riscoprire la bicicletta per andare a scuola o a lavoro. Magari sentendosi in qualche modo anche loro, grazie ad un qualunque modello di bicicletta, protagonisti del rispetto per città e ambiente e soprattutto ‘costruttori quotidiani’ di Pace.