Il sestese Tommaso Chimenti, critico teatrale vince il Grande Premio Internazionale Carlos Porto

SESTO FIORENTINO – E’ sestese il vincitore del Grande Premio Internazionale di Giornalismo e Critica Teatrale Carlos Porto, si tratta del giornalista e critico teatrale Tommaso Chimenti. Il premio è stato consegnato nei giorni scorsi a Lisbona. Tommaso Chimenti come ci si sente a vincere un premio prestigioso come quello del Grande Premio Internazionale di […]

SESTO FIORENTINO – E’ sestese il vincitore del Grande Premio Internazionale di Giornalismo e Critica Teatrale Carlos Porto, si tratta del giornalista e critico teatrale Tommaso Chimenti. Il premio è stato consegnato nei giorni scorsi a Lisbona.

Tommaso Chimenti come ci si sente a vincere un premio prestigioso come quello del Grande Premio Internazionale di Giornalismo e Critica Teatrale Carlos Porto? Un punto di arrivo o un nuovo punto di partenza?

“I premi, e questo è il primo per me nella critica teatrale, servono per fare il punto della situazione, comporre un bilancio e certamente rilanciare lavoro e ambizioni, passione e obiettivi. I riconoscimenti servono anche a marciare con ancora più forza e lena, senza smettere di crederci, di andare, vedere, avere sempre nuove curiosità. E’ stato inaspettato e per questo ancora più accolto con estrema soddisfazione. Non ci sono molti premi per quanto riguarda la critica teatrale ed essere valorizzati in un Paese straniero e in un importante festival come quello di Almada è stato assolutamente confortante. Già in passato, nel 2008, arrivai in finale al Premio Lettera 22 e nell’occasione fummo invitati a recensire due settimane di spettacoli all’appena nato “Napoli Italia Festival” e fu un’esperienza altamente formativa, mentre esiste anche il “Premio Radicondoli”, collegato all’omonima rassegna nel senese, che ancora non mi ha preso in considerazione, ma non demordo che prima o poi si accorgano anche di me”.

La tua passione per il teatro e lo spettacolo in genere è nota, ricordo quando dicevi che volevi diventare un critico teatrale. Quale è stato il tuo percorso per arrivare a vincere il premio?

“La mia passione nasce da lontano e successivamente è diventata una professione. Mi sono formato sul campo nella palestra del Corriere di Firenze, ho seguito un corso di critica teatrale con Massimo Marino, allora all’Unità, al Teatro Studio di Scandicci, e parallelamente ho avuto la possibilità, con costanza ed estrema curiosità, di poter scrivere su numerose riviste e siti web, potendo “allenarmi”, migliorare lo sguardo, la visione, la scrittura, potendo sperimentare linguaggi. Ricordo le esperienze a scanner.it grazie al collega Giovanni Ballerini, su succoacido.it grazie a Marco Di Dia, corrierenazionale.it con il caporedattore Dante Bigagli, il settimanale “Metropoli” e il quotidiano “Metropoli Day”, il trimestrale della Fondazione Toscana Spettacolo “Il Teatro e il Mondo”, l’“Ambasciata Teatrale a cura del Teatro del Sale, il mensile free press fiorentino “Lungarno”, passando per “Il fatto quotidiano”, un mio blog su ilfattoquotidiano.it, fino a recensito.net e la rivista “Hystrio”, trimestrale di approfondimento con il quale collaboro dal 2007. In tutto questo, sono entrato anche nelle giurie del “Premio Ubu”, nell’A.N.C.T., associazione nazionale della critica teatrale italiana, in Rete Critica, nella giuria del Premio Eolo per quanto riguarda il teatro ragazzi, del Premio Cassino Off, del Premio Lugliobambino e di molti altri. Ma la gavetta non finisce mai e arrivati non lo si è mai”.

Quale importanza e quale peso ha la critica teatrale su uno spettacolo, oggi?

“Non sono più i tempi, e per fortuna, quando la critica, alcuna, aveva veto di vita e di morte su uno spettacolo o su una carriera. Ma erano i tempi che al massimo c’erano una decina di grandi saggi delle maggiori testate nazionali che giravano per i festival, molto prima dell’avvento del web e della proliferazione di siti dedicati alla cultura e al teatro nello specifico. Oggi una buona critica, e fatta da professionisti autorevoli, non porta più repliche, può portare ad un buon passaparola o a qualche segnalazione per entrare nel paniere dei papabili per qualche premio. La critica deve sottolineare i processi, mettere a fuoco le ombre, cercare di spiegare passaggi creando collisioni, incastri, scambi per una visione più aperta possibile. La “stroncatura” ha poco senso se non è argomentata e supportata da elementi. La critica oggi può essere un valido strumento per i teatranti da una parte e per il pubblico dall’altro, purtroppo sui cartacei la sezione dedicata agli spettacoli dal vivo è sempre più risicata, almeno nei giornali generalisti e la critica teatrale non riesce ad avere la stessa forza di quella cinematografica”.

Con l’avvento dei giornali online e dei social, è cambiato il modo di fare giornalismo. E’ cambiato anche quello di fare critica teatrale?

“Questo è il grande tema sul quale dibattiamo noi giornalisti teatrali dall’inizio degli anni 2000. Sui giornali le pagine dedicate al teatro sono scenate, tanti quotidiani spariti, i colleghi che per anagrafe lasciano non vengono rimpiazzati, la pubblicità è calata mentre sul web è difficile che porti alti proventi. Quindi la critica, per necessità, ha preso e intrapreso forme ibride, a volte ambigue, mischiandosi con i festival in una sorta di metà strada tra l’analisi e l’ufficio stampa, oppure legandosi a qualche compagnia per la pubblicazioni di volumi monografici. Tutto questo collide con la libertà e l’indipendenza ma è anche un segno dei tempi, l’importante è tenere la barra dritta dell’onestà intellettuale”.

C’è uno spettacolo che ti è piaciuto particolarmente e che vorresti rivedere?

“Solitamente non vedo mai due volte lo stesso spettacolo ma alcuni mi sono entrati nel cuore e li ricordo anche a distanza di anni e nel frattempo hanno macerato, sono stati digeriti, sono diventati sogni e riflessioni, hanno aperto porte e suscitato viaggi, letture, idee. Potrei dire gli spettacoli che mi sono, in qualche modo, rimasti dentro: il “Pescecani” di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza, la compagnia di teatro danza balga Peeping Tom con “32 rue vandenbranden” visto alla Biennale di Venezia, il recente “La Cupa” di Mimmo Borrelli visto a Napoli, “Vita mia” uno dei primi spettacoli di Emma Dante, “Amleto a pranzo e a cena” di Oscar De Summa, “Sterminio” del Teatro delle Albe visto a Ravenna, “Pali” di Scimone e Sframeli, “Una tazza di mare in tempesta” di Roberto Abbiati la versione concentrata di un quarto d’ora del “Moby Dick” per pochi spettatori alla volta, gli spettacoli per una persona sola, intriganti e coinvolgenti, dei Cuocolo/Bosetti, “Hamletmachine” di Bob Wilson, “Osso” di Virgilio Sieni che danzava con il padre ottantenne dentro un laboratorio di marmo in San Frediano, la “Medea” di Antonio Latella, “Oracoli” di Enrique Vargas, tutti gli spettacoli di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, “Nella notte dei campi di cotone” da Koltes degli straordinari Fulvio Cauteruccio e Michele Di Mauro”

Quale è stato lo spettacolo che hai recensito per primo?

“Sono cresciuto a poche centinaia di metri dal Teatro della Limonaia quindi, inevitabilmente, sono stato “forgiato” da quelle visioni, da quel teatro che all’epoca chiamavo “sperimentale” in opposizione al Teatro della Pergola o al Teatro Puccini. Nella Limonaia di Barbara Nativi, personaggio affascinante, tutto era spiazzante. La locandina, molto ruffiana e accattivante, di “Shopping & Fucking”, con un bel fondoschiena femminile in primo piano, mi fece decidere di andare e di scriverne tanto era l’entusiasmo per aver assistito a qualcosa di diverso, straordinario nel vero senso del termine, fuori da quello che mi aspettavo di trovare e incontrare, un linguaggio schietto e crudo che non pensavo potesse essere detto in teatro. Per me fu uno spettacolo spartiacque”.

In questi anni di attività hai conosciuto molte persone, attori, registi e hai viaggiato molto. Quale personaggio ti ha colpito? E quale è, secondo te, la città più “teatrale”?

“Per fare questo mestiere bisogna armarsi di carta e penna e di bagaglio, zaino, valigia. Ho preso tutti i treni regionali, ho battuto l’Italia e, negli ultimi anni, anche fatto, fortunatamente, tanti viaggi di lavoro all’estero grazie a chi ha notato il grande lavoro svolto sul campo e da Paesi stranieri mi ha contattato perché vedessi e seguissi il loro lavoro. In Italia ho frequentato in questi quindici anni di critico teatrale i festival, partendo da quelli toscani, “Inequilibrio” di Castiglioncello, il Teatro Povero di Monticchiello, il VolterraTeatro, “Intercity” alla Limonaia, “Fabbrica Europa” alla Stazione Leopolda, “Contemporanea” a Prato, “Kilowatt” a Sansepolcro, “Utopia del Buongusto” nel pisano, per poi aprirmi a quelli nazionali, Il “Napoli Italia Festival”, lo “Short Theatre” a Roma, “Drodesera” a Trento, “Operaestate” a Bassano del Grappa, “Teatro a Corte” a Torino, “Latitudini” a Messina, il “Teatro dei Luoghi” a Lecce, “Arrivano dal mare” per il teatro di figura e burattini a Ravenna, il “Festival dei Due Mondi” a Spoleto, “Castel dei Mondi” ad Andria, “Terreni Creativi” ad Albenga in Liguria, “Santarcangelo” in Romagna, “Primavera dei Teatri” a Castrovillari in Calabria, il Festival di Terni, “Vie” a Modena. All’estero invece le mie esperienze vanno dalla Svizzera con il Festival di Lugano, al reportage che ho redatto dal Kosovo tra teatro, società e guerra, la Norvegia seguendo il gruppo sardo Cajka, il Canada con il festival nel Quebec a Saguenay e quello di Toronto “Summerworks”, il “Gift Festival” a Tbilisi in Georgia, appunto il “Festival de Almada” a Lisbona, dove sono ritornato quest’anno, a Lubiana in Slovenia, l’“International Festival” a Cluj in Romania, mentre prossimamente, ad agosto, sarò all’“Open Look” di danza a San Pietroburgo. Per quanto riguarda la città più teatrale potrei dire senza dubbio Milano dove si trova tutto e di alta qualità oppure la stagione dell’Ert, Emilia Romagna Teatro, dislocata tra Modena, Bologna, principalmente, ma anche Cesena, Vignola e Castelfranco Emilia, che abbina numeri, quantità, proposte interessanti, ospiti internazionali. Invece per il personaggio amo ricordare Stefano Massini, adesso scrittore ma anche affabulatore per “Piazza Pulita” a La 7, drammaturgo, sceneggiatore per il cinema, consulente artistico per il Piccolo Teatro di Milano, che conosco da quando ho cominciato questa professione e, nonostante i continui successi e riconoscimenti, è rimasto la persona umile di quando ci conoscemmo nel foyer del Teatro di Rifredi dopo una sua regia: i grandi si riconoscono da questi dettagli”.

Consiglieresti di fare il critico teatrale?

“Il consiglio che mi posso permettere di dare ai ragazzi è quello di frequentare i teatri e gli spazi cittadini dove si muove qualcosa, di annusare questi luoghi, conoscere movimenti, avere sempre voglia di andare a scovare cosa c’è o ci può essere dietro l’angolo, non fermarsi alle certezze date dagli adulti ma farsi un’idea propria, cercare la propria strada, il proprio punto di vista, ascoltare più campane. Il teatro, in questo, ci dà la possibilità, come specchio, come riflesso, di capire un po’ più del mondo che ci sta attorno e di noi stessi, è uno scambio continuo, sveglio, attento, vigile. Il teatro ben fatto non ci lascia assopire sulla poltroncina, non ci lascia indifferenti, ci sposta, ci smuove, ci fa pensare anche, soprattutto, quando lo spettacolo è finito, ci rimane dentro, ci scuote, ci mette in moto. Se poi tutto questo possa diventare un mestiere la strada è ardua ma lo è in ogni campo quindi mai porsi limiti, mai darsi per sconfitti prima di iniziare, lanciare il cuore (la penna e il taccuino) sempre oltre l’ostacolo. Viva il teatro, viva la poesia, viva la parola. Che la vita è letteratura e non matematica”.